LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE A CONDIZIONE"

creata il 6 novembre 2012

 

 

Essendo al cuore di ogni argomentazione teorica e la premessa che giustifica ogni azione pratica, il condizionale merita una riflessione non superficiale.

L’enunciato “se A, allora B” patisce due interpretazioni, una epistemica, l’altra ontologica. L’interpretazione epistemica è logica, l’interpretazione ontologica è eziologica. Logicamente parlando, “se A, allora B” significa che non può essere vero che al tempo stesso A sia vero e B falso. È questa l’interpretazione corrente dei sequenti di Gentzen nella forma

A –> B,

dove A è vero, B è falso e –> è il simbolo dell’impossibile conseguenza logica. Nella notazione di Gentzen il principio di identità e non contraddizione si scrive A –> A e si legge: è impossibile che A sia vero e al tempo stesso A sia falso. Tutta la sintassi della logica classica si può ricostruire a partire dall’assioma di identità e non contraddizione e pochi altri. In questa interpretazione, il modello insiemistico del condizionale “se A, allora B” è semplicemente dato dall’inclusione dell’insieme A nell’insieme B.

Questa epistemologia non è particolarmente nuova; risale agli Stoici, in particolare a Filone di Megara, che asseriva l’equivalenza tra “se A, allora B” e “non A o B”, giustificando l’uso matematico dell’implicazione materiale, adottato da Euclide in poi. Matematicamente parlando, si dice che B è la condizione necessaria di A, nel senso che se non c’è B non c’è neppure A, che è contenuto in B. Il merito degli Stoici fu di aver individuato la logica degli enunciati, indipendente dalla logica dei predicati di Aristotele.

Ontologicamente parlando, “se A, allora B” viene visto nel senso della sufficienza della condizione: è sufficiente che ci sia A perché ci sia B. Ma la condizione di sufficienza viene dall’ontologia estesa e forzata a diventare condizione eziologica. Ciò che era solo sufficiente diventa efficiente sempre e comunque. Significa che non ci può essere B senza A, perché A è la causa efficiente di B. Il modello insiemistico di questa interpretazione FALLACE è simmetrico rispetto al precedente ed è dato dall’inclusione dell’insieme B nell’insieme A.

Questo modello insiemistico realizza il principio eziologico secondo cui nell’effetto B non ci può essere più realtà della causa A. Il principio è citato anche da Cartesio nella Terza Meditazione filosofica (“Già secondo il lume naturale è chiaro che nella causa efficiente e totale ci dev’essere almeno tanto quanto si riscontra nel suo effetto. Infatti, l’effetto da dove mai potrebbe prendere la sua realtà, se non dalla causa? E la causa come potrebbe dargli questa realtà, se non l’avesse in sé? Da ciò dunque consegue che nulla può essere generato dal nulla, e neppure che ciò che è più perfetto, cioè che ha più realtà in sé, [41] può derivare da ciò che è meno perfetto”.) A partire da queste premesse fallaci, lo schematismo ezio-ontologico esclude fenomeni spontanei, cioè senza causa, come il moto inerziale (che pure Cartesio teorizza!), il decadimento radioattivo, la permanenza delle specie biologiche. Infatti, i fenomeni spontanei, essendo effetti di una causa nulla, e non potendo avere più realtà del nulla, non possono essere che nulli

(Ulteriori approfondimenti alla pagina

Effetto testimone della causa).

Le due diverse concezioni del condizionale sono all’origine di due diversi stili cognitivi: quello teorico e quello dottrinario, il primo epistemico e il secondo ontologico. La differenza sta nel modo di procedere nella gestione del sapere. Lo stile teorico procede per confutazioni, cioè “a togliere”: “se A allora B, ma non B, allora non A”. Lo stile dottrinario procede per conferme, cioè “a mettere”: “se A allora B, e B, allora A”. La differenza è quella individuata in campo estetico da Leonardo: il metodo a togliere è quello della scultura, il metodo a mettere è quello della pittura. Freud fece sua questa distinzione, optando per il metodo a mettere. La metapsicologia freudiana è un continuo aggiungere di cause psichiche (vedi Causa freudiana), dette pulsioni. I casi clinici freudiani sono sempre conferme delle mitologie originarie (mitologie sull’origine), dalle quali non ci si vuole mai separare concettualmente. La separazione da un’ortodossia avviene sempre e solo per eresia.

Il risultato di questa analisi spiega la resistenza di filosofi e scienziati (psicanalisti provvisoriamente compresi) a passare dall’assetto deterministico dell’ontologia – tutto ha una causa – all’assetto indeterministico dell’epistemologia – non tutto ha una causa. Si resiste all’ipotesi di ammettere dei vuoti di sapere eziologici. Concretamente si resiste al passaggio dal metodo che mette e conserva quel che si è aggiunto al metodo che pota e sfronda le congetture già formulate.

Perché si resiste? Perché questo irrimediabile conservatorismo?

La risposta della psicanalisi è semplice: perché c’è una causa che non si vuole confutare ma sempre solo confermare. La causa che interessa il soggetto è la causa generazionale. Il soggetto si chiede chi è il proprio padre e tale domanda non può rimanere senza risposta. Un padre ci deve essere sempre e comunque; Dio risponde a questa esigenza soggettiva di paternità certa, conferendole una dimensione collettiva. Dio è padre mio, tuo e di tutti noi. Sulla certezza del padre comune, che istituisce l'Uno, si fonda il legame sociale identificatorio. Allora si capisce bene la ragione per cui si resiste a modificare l’assetto ontico-eziologico del condizionale; si resiste alla transizione verso la scienza, perché si metterebbe a rischio la stabilità del legame sociale. Di più, si schierano due massicci mastini a difesa del principio di ragion sufficiente: ultimamente a difesa del padre. Si tratta del discorso medico, che tratta gli agenti patogeni rivolti contro il soggetto individuale, e del discorso giuridico, che tratta gli agenti patogeni rivolti contro il soggetto collettivo.

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Poi arriva Nietzsche a proclamare che Dio è morto e che l’abbiamo ucciso noi. L’enunciato dell’aforisma 125 della Gaia scienza (1882) altro non è che un prequel del complesso edipico (1899), formulato senza riferimento a improbabili meccanismi di difesa. Quel che sfugge a Nietzsche è una banalità psicanalitica: Dio funziona meglio da Dio se è morto; infatti, la sua morte lo fa esistere come Dio, elevandolo al cielo della trascendenza. Non per nulla il Dio dei cristiani – molto più astuto dei suoi concorrenti monoteisti – fa morire suo figlio al proprio posto. Nietzsche tenta la trasvalutazione dei valori, ma non arriva a realizza la completa e programmata transizione dall’ontologia all’epistemologia. Il suo Zarathustra rimane come Mosè ai confini della patria dei superuomini.

L’alternativa radicale è quella dell’approccio epistemologico, che lascia la questione del padre – vivo o morto – sospesa in un vuoto di sapere. L’epistemologia vive in un bagno di incertezza: accetta di non sapere veramente chi è il padre. Statisticamente l’approccio epistemologico è più che giustificato. Si stima che un figlio su cinque sia extraconiugale. (La mia pratica psicanalitica dà una stima leggermente superiore, ma i pazienti dello psicanalista sono un campione viziato, quando non è vizioso).

Concludo con una considerazione pratica, che è anche politica, finalizzata a istituire un collettivo che pratichi i vuoti di sapere, anche in psicanalisi. Forse è sbagliato essere al 100% ontologici o al 100% epistemici. Forse è più saggio, come fanno gli elettroni quantistici, entrare in una sovrapposizione (o miscela) dei due stati. Quella che personalmente preferisco è la soluzione 80/20: 80% epistemico e 20% ontologico. La mia ragione è semplice: una percentuale ontologica inferiore all’epistemica esclude l’emergenza di maestri. Ma rimando la dimostrazione del teorema ad altra sede.

Qui mi limito a segnalare un corollario pratico del teorema. L’uomo di dottrina procede applicando il sapere del maestro; tipicamente l’analista dottrinario applica ai propri casi clinici il sapere scolastico precostituito, non nell’interesse del malato, che deve essere curato, ma nell’interesse della scuola che pretende corroborare la propria dottrina. Al contrario, l’uomo teorico procede sfruttando le proprie esperienze o per confutare le vecchie teorie o per congetturarne di nuove; tipicamente l’analista teorico sfrutta i propri casi clinici per far avanzare la propria teoria, potando i rami vecchi e innestando nuove gemme, che germoglieranno; se nel processo di avanzamento della teoria, il malato sta meglio, tanto meglio (ma non è richiesto il desiderio di guarire).

Le politiche dei due personaggi sono corrispondentemente diverse. L’uomo di dottrina vive in e promuove organizzazioni ecclesiastiche, fondate su dogmi incontrovertibili. L’uomo di teoria vive in e promuove organizzazioni sociali, che stanno in piedi par provision, fondate su null’altro che congetture da smontare. Non stupisce che le organizzazioni dottrinarie, più forti e più rigide, scaccino dal consesso civile le organizzazioni teoriche – i collettivi di pensiero secondo Fleck – che sono inevitabilmente più deboli ma anche più flessibili.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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